Menu

Deprecated: Non-static method JSite::getMenu() should not be called statically, assuming $this from incompatible context in /home/ulpeyygx/domains/ilcorsaro.info/public_html/templates/gk_news/lib/framework/helper.layout.php on line 181

Deprecated: Non-static method JApplication::getMenu() should not be called statically, assuming $this from incompatible context in /home/ulpeyygx/domains/ilcorsaro.info/public_html/includes/application.php on line 536

Otto domande che i queer palestinesi sono stanchi di sentire

Otto domande che i queer palestinesi sono stanchi di sentire

Negli ultimi anni le tematiche lgbti e queer si sono andate sempre più ad intrecciare con la questione palestinese e israeliana. Sentiamo spesso parlare della differenza della condizioni di gay e lesbiche in Israele rispetto al resto del medio oriente. Non capita spesso però di sentire direttamente la voce degli omossessuali palestinesi. Per questo abbiamo deciso di tradurre questo intervento [http://electronicintifada.net/content/eight-questions-palestinian-queers-are-tired-hearing/12951] di Ghaith Hilal, attivista queer palestinese della Cisgiordania, membro dei vertici di Al-Qaws [http://www.alqaws.org] (Arcobaleno), la prima organizzazione LGBTQ riconosciuta che si occupa dei bisogni dei Palestinesi che vivono in Israele e nei territori occupati. Otto risposte che ci possono aiutare a togliere gli occhiali occidentali nel comprendere i bisogni e le difficoltà della lotta queer e lgbti nel medio oriente.

Otto domande che i queer palestinesi sono stanchi di sentire

Si potrebbe pensare che l'obiettivo principale di un gruppo di attivisti queer come noi di Al-Qaws in Palestina dovrebbe essere smantellare la gerarchia sessuale e di genere nella propria società. Un compito apparentemente senza fine.
Cosi è. Ma si potrebbe pensare anche il contrario, a giudicare dalle ripetitive critiche che cadono sulle nostre conferenze, sui nostri eventi o dalle indagini che riceviamo dai media e da altre organizzazioni internazionali.
Abbiamo intenzione di porre fine una volta per tutte a tutto questo. Spiegare alle persone i propri privilegi non è un nostro fardello. Ma prima di annunciare il nostro ritiro formale da questo compito, ecco qui le otto domande più frequenti che riceviamo e le loro definitive risposte.

1. Israele non fornisce ai queer Palestinesi una paradiso protetta?

Certo che si: il muro dell’apartheid ha luccicanti porte rosa scorrevoli, pronte ad ammettere coloro che si mettono in una posa favolosa. Infatti, Israele ha costruito il muro per tenere fuori gli omofobi palestinesi e proteggere i Palestinesi queer che cercano rifugio.

Seriamente: “Israele” crea rifugiati; non ricoveri per rifugiati. Non c’è mai stato un caso di un Palestinese – un discendente di una famiglia o di famiglie sfollate, a volte massacrate, spesso sbattute in prigione senza un capo d’accusa – che abbia per incanto superato lo strascico di questa storia e che abbia ottenuto asilo in “Israele” – lo stato che ha commesso queste atrocità. Se qualcuno riesce ad attraversare il muro e finire a Tel Aviv, è considerato “illegale”. E finisce per lavorare e vivere in condizioni orribili cercando di non essere arrestato.

2. I Palestinesi non sono tutti omofobi?

Gli Americani sono tutti omofobi? Certamente no. Sfortunatamente, le rappresentazioni occidentali dei Palestinesi, sopratutto di quelli lesbiche, gay, transgender o queer, tendono ad ignorare la diversità nella società palestinese. Detto questo, i palestinesi vivono sotto una decennale occupazione militare. L'occupazione amplifica le diverse forme di oppressione che si possono vivere in ogni società.

Tuttavia, l'omofobia non è il modo di contestualizzare la nostra lotta. Questa è una nozione che viene da uno specifico tipo di attivismo del nord del mondo. Come possiamo isolare l'omofobia da un sistema oppressivo complesso (il patriarcato) che opprime le donne e le persone di genere non conforme?

3. Come vi comportate con il vostro principale nemico, l'Islam?

Ah, quindi abbiamo un nemico principale ora? Se dovessimo individuare un nemico, sarebbe l’occupazione, non la religione - l’Islam o altre.
Attualmente forme sempre più fondamentaliste di religione stanno godendo di una rinascita globale, anche in molte società occidentali.
Non vediamo la religione come la nostra principale sfida. Eppure, il crescente sentimento religioso, indipendentemente dalla religione, crea quasi sempre ostacoli a chi è interessato alla promozione del rispetto per la diversità sessuale e di genere. Il nazionalismo palestinese ha una lunga storia di rispetto per la laicità. Ciò fornisce un insieme di valori culturali utili al sostegno della causa dei Palestinesi LGBTQ .

Inoltre, la religione è spesso una parte significativa dell’identità dei Palestinesi LGBTQ. Noi rispettiamo tutte le identità delle nostre comunità e facciamo spazio alla diversità.

4. Ci sono alcuni gay palestinesi che hanno fatto “coming out”?

Sono contento che abbiate posto questa domanda. Abbiamo dei grandi falegnami gay palestinesi che costruiscono degli armadi incredibili per finocchi con tutti i comfort occidentali che si possano sognare – non abbiamo mai voglia di andare via infatti.* Ancora una volta l’idea del “coming out” – o la politica di visibilità – è una strategia che è stata adottata da alcuni attivisti LGBT nel nord del mondo a causa di circostanze particolari. Imporre questa strategia al resto del mondo, senza capirne il contesto, è un progetto coloniale.

Chiedeteci piuttosto quali strategie di cambiamento sociale si debbano applicare al nostro contesto, e se la nozione di “coming out” abbia qualche senso.

5. Perché non ci sono Israeliani in al-Qaws?

Colonialismo non significa che delle cattive persone facciano del male ad altre; (gli Israeliani “cattivi” non rubano i soldi per il pranzo ai Palestinesi queer). Essere “super buoni” non fa svanire i sistemi di oppressione. La nostra organizzazione lavora all’interno della società palestinese, attraverso i confini imposti dall’occupazione. Le sfide che gli LGBTQ israeliani affrontano non sono niente rispetto a quelle a cui fanno fronte i palestinesi. Stiamo parlando di due società diverse, con culture e storie differenti; il fatto che loro stiano attualmente occupando la nostra terra non ci rende un’unica società.

Inoltre, essere queer, non elimina la dinamica di potere tra il colonizzato e il colonizzatore, nonostante le migliori intenzioni. Noi intendiamo resistere al sentimento “globale, rosa, felice e della famiglia gay”. Organizzare solo i Palestinesi è essenziale per decolonizzare e migliorare la società palestinese.

6. Ho visto questo film sugli omosessuali palestinesi (Invisible Men/Bubble/Out In The Dark, etc.) e mi sento di aver imparato molto sulla vostra lotta. Vuoi dire quei film che sono stati fatti da privilegiati registi israeliani o ebrei e che ritraggono i bianchi israeliani come salvatori e i Palestinesi come vittime che hanno bisogno di essere salvati?

Questi film tolgono la voce ai queer palestinesi, rappresentandoli come vittime che hanno bisogno di essere salvate dalla propria società.
Inoltre, questi film ricorrono a stereotipi razzisti sugli uomini arabi, rappresentati come instabili e pericolosi. Questo genere di film è semplicemente propaganda “pinkwashing”**, finanziata dal governo israeliano, che utilizza una struggente storia d’amore tra oppresso e oppressore con un po' di glitter sparso sopra.

Se volete conoscere la realtà della nostra comunità e della nostra lotta, provate ad ascoltare quello che i queer palestinesi hanno da dire sui siti web di Al-Qaws (http://www.alqaws.org/q/) o Palestinian Queers for BDS (http://www.pqbds.com/).

7. La lotta per i diritti gay non è un problema più urgente rispetto al pinkwashing?

I tradizionali gruppi LGBT del nord vorrebbero farci credere che i queer vivano in un mondo a parte, collegati con la propria società solo come vittime dell’omofobia.
Ma non si può avere una liberazione queer finché l’apartheid, il patriarcato, il capitalismo e altre oppressioni continuano ad esistere. È importante tracciare i collegamenti tra queste forze oppressive.

Inoltre il pinkwashing è una strategia utilizzata dalla campagna “Brand Israel” per ottenere il supporto dei gay in altre parti del mondo. Si tratta semplicemente di un tentativo di rendere il progetto sionista più attraente per le persone queer. Questa è l'ennesima replica di una fantasia coloniale tossica, familiare ai nostri occhi – cioè che il colonizzatore può fornire qualcosa di fondamentale e necessario che il colonizzato non può assolutamente provvedere per se stesso.
Il pinkwashing strappa via le nostre voci, la nostra storia e la nostra forza, raccontando al mondo che Israele sa cosa è meglio per noi. Attaccando il pinkwashing, noi reclamiamo la nostra storia, le nostre voci e corpi, dicendo al mondo ciò che vogliamo e come può sostenerci.

8. Perché usate i termini dell’Occidente, come LGBT o queer per descrivere la vostra lotta? Come rispondete a questa critica?

Anche se siamo stati additati in diverse occasioni come complici di Israele, naif e occidentalizzati (da coloro che stanno in occidente), i nostri attivisti hanno decenni di esperienza nell’analisi dell’imperialismo culturale e dell’orientalismo. Tutto ciò ha fornito materia prima a molti accademici di passaggio. Tuttavia, chi lavora nella Torre d’Avorio raramente, o mai, si assume responsabilità nei confronti di coloro che lavorano sul campo, né è capace di riconoscere il proprio potere (proveniente dalla stessa economia coloniale) sugli attivisti.

Siamo responsabili delle nostre comunità locali e dei valori sviluppati in anni di organizzazione Il linguaggio è una strategia, ma non eclissa la totalità di chi siamo e cosa facciamo. Le parole che sono diventate “moneta globale comune” - LGBTQ - sono utilizzate con grande cautela nei nostri movimenti di base. Semplicemente perché tali parole, emerse da un particolare contesto e momento politico, non significa che portino lo stesso contenuto politico quando vengo utilizzate nel nostro contesto.

Il linguaggio che noi utilizziamo è sempre rivisitato ed espanso attraverso il nostro lavoro. Il linguaggio canalizza discussioni e ci spinge a pensare più criticamente, ma nessuna parola, né in inglese, né in arabo può fare tutto il lavoro. Solo un movimento può farlo.

. Ghaith Hilal è un’attivista gay palestinese della Cisgiordania che ha fatto parte della leadership di Al-Qaws dal 2007.
* [ndt] “coming out” è un'espressione inglese che possiamo tradurre come “uscire allo scoperto”, ovvero rivelare la propria omosessualità. L'espressione completa è “Coming out of the closet” che letteralmente significa “uscire dall'armadio”. **Pinkwashing: l'attività di propaganda per cui si utilizza una retorica di vicinanza con i temi gay, lesbici, transgender o queer al fine di ripulire la propria immagine.

Ultima modifica ilGiovedì, 28 Agosto 2014 22:37
Torna in alto

Categorie corsare

Rubriche corsare

Dai territori

Corsaro social

Archivio

Chi siamo

Il Corsaro.info è un sito indipendente di informazione alternativa e di movimento.

Ilcorsaro.info